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Pubblicato in Cultura

IL MAESTRO E MARGHERITA di Michail Bulgakov

Martedì, 12 Gennaio 2021 10:07 Scritto da  ELIO SPADA


           Allora la luna diventa tempestosa, getta fiumane di luce su Ivan, spruzza la luce in ogni direzione (...) e fino al prossimo plenilunio nessuno inquieterà il professore: né l'assassino col naso infossato di Hesta, né il feroce quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato.” La fine costituisce un nuovo inizio.  L'inizio di una nuova, interminabile storia che è, insieme, storia di un giusto, storia di un amore, storia dell'uomo, storia del mondo. Storia impossibile e verissima del Maestro e Margherita. Vicenda teneramente tragica, inafferrabile e illeggibile. Nel senso che non può leggersi nell'accezione comune del termine. L'opera di frantumazione stilistica e strutturale cui Michail Bulgakov sottopone con eccelsa perfidia i molteplici percorsi narrativi del suo lavoro più noto, rende infatti quasi impossibile una lettura tradizionalmente unitaria ed uniforme del testo.
            Una formula, dunque, decisamente “scomoda” che impone al lettore salutari sforzi di aggregazione dei significati letterali e metaforici delle narrazioni apparentemente dissociate e dissocianti che si accavallano lungo un percorso sottoposto ad una forse eccessiva teatralizzazione. Caratteristica tuttavia necessaria ad un'opera che intende esplicitamente presentarsi (anche se non solo) come rilettura-scrittura del Faust goethiano nel cui prologo appare chiarissima un'enunciazione di principio alla quale il lettore avveduto deve far sempre e comunque riferimento: “Volete dare un dramma? Datelo a pezzi. (...) A che serve infatti creare un'opera armonica? Il pubblico tanto ve la farà a pezzetti”. Bulgakov ne appare convinto: solo pochi lettori sono in grado di individuare ed apprezzare l'unità armonica di un'opera e di fruirne globalmente gli elementi costitutivi. Meglio sparpagliare le tessere sulla carta e lasciare che il lettore spigoli qua e là secondo che estro comandi.

 Ma, anche, necessità pratica inevitabile o quasi date le continue rielaborazioni compositive del testo la cui produzione spazia nell'arco di oltre dieci anni. Insomma Bulgakov. fa a pezzi con meticolosa lucidità le plurimillenarie unità aristoteliche di tempo, luogo e azione che lo stagirita riferiva al teatro e che qui riguardano, infatti, un testo che fa della struttura teatrale uno dei suoi paradigmi. Il tempo si dissolve in mille istanti; il luogo si distende tra infinite increspature dello spazio; l'azione esplode in miriadi di schegge vaganti che trafiggono la narrazione. La pesante responsabilità di ricreare il cosmos piomba inattesa sull'incauto spettatore. Si genera così un proficuo anche se scomodo attrito nello sviluppo del significato testuale e della sua allocazione semantica. Bulgakov non agevola certo chi lo segue; lo sconcerta, quasi lo aggredisce, premendo con decisione, di volta in volta, sul registro comico, satirico, grottesco, tragico, romantico, descrittivo e molto altro ancora.  Impegnando il lettore, con protervo e illuminante sadismo, in rapide sterzate, significative deviazioni, rischiosi derapages controllee.   

L'azione si svolge su (almeno) tre piani diversi i cui punti di contatto non sono però facilmente decifrabili poiché si collocano su boccascena differenti e percorrono itinerari anche stilistici diversi. Non per caso le vicissitudini dei due protagonisti sono state introdotte nel romanzo alla terza redazione dell'opera. Tre storie diverse, dunque, (il diavolo a Mosca, il Maestro e Margherita; Pilato e Gesù) al cui interno si agitano con moto solo apparentemente browniano più di 80 personaggi, di maggior o minor rilievo, sullo sfondo di una panoplia molto “russa”, dai tratti a volte tolstojani, cekoviani in altre occasioni. Anche Gogol è presente in un “teatro sociale” che, a ben vedere, vive di anime morte. Tre percorsi differenti uniti da un sottile ma indistruttibile filo argenteo: la luna, divinità ancestrale che declina il mondo al femminile.
Dea bianca i cui raggi celesti illuminano il cammino di chi sale verso la luce. Una luce che a volte dilaga, altre ribolle, altre ancora sommerge il mondo. Sempre simbolo dell'amore. Tre narrazioni, insomma, che quasi potrebbero essere lette in totale indipendenza l'una dall'altra. Margherita assume anche il ruolo simbolico della zōe, la vita che non muore contrapposta alla caducità del bìos. Vita purissima e impersonale che la pervade quando, ormai priva di corpo, elemento pneumatico del cielo, vola e si tuffa in un fiume che è brodo primordiale, liquido amniotico, fluido cordone ombelicale che la unisce per sempre alla sua natura albionica immersa nel “...linguaggio del mito poetico anticamente usato nel Mediterraneo (...) in stretta relazione con cerimonie religiose in onore della dea-Luna...” (R. Graves “La Dea Bianca”, pag 14. Adelphi).

La prima delle tre narrazioni, di più agevole lettura e decifrazione, esprime una radicale critica sociale, morale e politica della corruzione e della ottusa e ingorda burocrazia imperante nell'Urss degli anni Trenta. Proprio quella burocrazia staliniana che aveva escluso Bulgakov dalla riserva protetta e privilegiata degli scrittori. La censura sovietica piomberà come una mannaia sulle pagine eretizzanti di Bulgakov. E anche l'autocensura: la prima versione del romanzo verrà bruciata dallo scrittore nel 1930 per salvarla dallo scempio delle forbici staliniane. Anche il Maestro dà alle fiamme il suo manoscritto (ciò appartiene alla seconda narrazione) che Margherita si incaricherà di salvare insieme al suo amore, con la complicità-collaborazione di Satana. In Europa il romanzo sarà pubblicato solo nel 1967 e susciterà l'entusiasmo unanime di pubblico e critica. Eugenio Montale, sul “Corriere della sera” definì il testo di Bulgakov “un miracolo che ognuno deve salutare con commozione”.

Satana, dunque, (o chi per lui) che si materializza a Mosca fin dalle prime battute. E svolge il ruolo, piuttosto insolito, di “giustiziere”. Woland tenta e punisce senza pietà avari, avidi, truffatori, arrivisti, egoisti e profittatori. Non si impegna per conto terzi ma per sé. Si direbbe per amore di giustizia. Non dico per amore. Se impartisce dure punizioni, sa tuttavia elargire premi. E lo fa, in modo del tutto eterodosso, su richiesta di una Parte che non viene mai esplicitamente nominata. È Levi Matteo (figura dell'evangelista) l'intermediario fra passato e presente, fra cielo e terra, che prega (proprio così: prega) Woland-Satana di essere clemente. Così sia: “Riferiscigli che sarà fatto”.  I due amanti però non meritano la luce ma solo il riposo. Il cenno autobiografico è evidente. Bulgakov-Maestro morirà infatti cieco mentre sta lavorando al libro che la moglie-Margherita porterà a termine. Si delinea qui, ancora una volta, un evidente riferimento veterotestamentario che addita il dolore innocente. È Giobbe che parla e agisce; il giusto, il generoso, l’onesto Giobbe che sul suo letto di strame vorrebbe requiem aeternam:

”Perché non sono stato come un aborto nascosto, come bimbi che non vedono la luce ? Poiché ora (…) dormirei e sarebbe un riposo per me...”, (Giobbe 3,10)
 É, Margherita, cifra e cardine dell'intero romanzo. Ricca, bella, sposata con un uomo che l'adora ma che non è ricambiato. Donna dai tratti faustiani si fa strega per amore. L'alchimista goethiano aveva già prodotto una crisi nel cospicuo panorama letterario dedicato al patto col diavolo. Panorama nel quale spicca il protofaust marlowiano. Il Faust di Goethe è il primo della serie a non chiedere a Mefistofele ricchezze o potere. Vuole solo (e non è certo poco) conoscere ogni cosa, esperire la conoscenza totale del mondo “...si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio” (Gen. 3,5). Tragico Ulisse che tutto vuole sapere e provare, anche il dolore più atroce. In perfetto stile illuministico aspira alla conoscenza assoluta.  

 Margherita capovolge il paradigma e si fa strega per puro amore. Un amore che esplode violento, che “...ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra (altra divinità ancestrale femminile come la luna n.d.r) e ci colpì subito entrambi. Così colpisce il fulmine.”  Il fulmine che è soprattutto luce.      
 Nulla importa del mondo a Margherita. Non la ricchezza né gli agi o i lussi. Non chiede neppure di essere amata: vuole soltanto amare; è strega perché ama. Per questo non sarà davvero punita. Pur se la Luce le sarà negata. Si risolve, qui, il tema fondamentale attorno al quale si muove l'intero meccanismo: il rapporto fra bene e male, fra luce e tenebre. Argomento del resto esplicitamente indicato in apertura con la breve citazione dal Faust:

“Dunque tu chi sei?”                                                                               

“Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”.
Argomento cruciale e comune al testo di Goethe e all'opera maggiore di Bulgakov, Satana è il Male ma compie il Bene. Le maiuscole stanno ad indicare l'assoluto. Par di capire che in tal modo il Male, almeno negli esiti, coincida col Bene o gli sia in qualche modo consustanziale. Affermazione sconvolgente e certamente eretica.  La spiegazione arriva folgorante e inattesa: senza il Male non può esistere il Bene. Ascoltate le parole di Woland-Satana a Levi Matteo: “...che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra se ne sparissero le ombre?” La “luce nuda” è soltanto un “capriccio”.  Persino ovvio, dato che poco prima Woland viene definito da Levi “signore delle ombre”. Una tesi che viene da lontano. Addirittura dai Presocratici. Secondo Parmenide riletto da K. Popper, infatti, l'unica vera realtà sono le tenebre poiché “...la notte si colloca nella colonna dell'oscurità, della pesantezza, del corpo, del freddo, della vecchiaia, della morte, del non-movimento, della materia, dell'unico vero essere (...) mentre la luce si colloca nella colonna del non-essere, del vuoto, del non-reale...” (K. R. Popper, “Il mondo di Parmenide”, pag. 112. Piemme).
 Ciascuno insomma vanta la propria merce. Ma questo vale anche per la controparte che agisce soprattutto nella terza narrazione, con Gesù che incontra l'egemone Ponzio Pilato e gli rivela la sua natura e, insieme, il senso del perdono. Poiché, come afferma Hanozri ormai sulla croce, il peccato più grave è la codardìa. Pilato lo sa bene perché ha lasciato crocifiggere un giusto per viltà, per quieto vivere e, anche, per motivi politici. Il rimorso lo perseguiterà. Il pentimento, vero e profondo, arriverà a salvarlo grazie al perdono annunciato in precedenza dalle parole di Gesù riportate a Pilato “...ringraziava e non accusava perché gli toglievano la vita.”  Ora è la voce di Margherita, imperiosa e potente, a gridare “liberatelo!”. Quella stessa parola che il procuratore non aveva voluto pronunciare per salvare Hanozri.  Margherita è il perdono e l'amore che ci salva. Perché “Misericordia io voglio e non sacrificio" (Matteo 9,13). Così Pilato può, dopo “dodicimila lune” di attesa dolente, incamminarsi lungo la strada illuminata dalla maestà della Dea Bianca. Mentre dietro di lui Woland , esseniano maestro di giustizia, compie “...un gesto con la mano in direzione di Jerushalajim e quella si spense”. Le tenebre confermano la natura del reale. Somma giustizia.
Il finale è portato da un sogno e da un grido: “Non ho più bisogno di nulla”. E l’uomo chiamato Pilato sale verso la luna che, essenza femminile del mondo, “...domina e gioca, danza e scherza...”. Cala il sipario sul Maestro e Margherita, su Woland e Hanozri, “… e fino al prossimo plenilunio nessuno inquieterà il professore: né l'assassino col naso infossato di Hesta, né il feroce quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato”.

Ultima modifica il Mercoledì, 13 Gennaio 2021 05:57
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