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Pubblicato in Cultura

L’OMBRA DEL BASTONE di Mauro Corona

Lunedì, 25 Gennaio 2021 06:24 Scritto da  ELIO SPADA

“Invitati o no
gli dei
saranno presenti”

C. G. Jung

Una storia di streghe e di stregati scorre tumultuosa tra i dirupi crudi che circondano Erto. Storia di malefici e maledizioni. Di sguardi e di destini. Le righe incise su carta dalla sgorbia impugnata con grande perizia narrativa da Mauro Corona rivelano e ricordano la fatica antica del vivere in quota. Parlano, con semplicità solo apparente, di quella che viene ormai definita “civiltà alpina” i cui archetipi comuni, ben individuabili lungo l’intero arco montuoso che collega il mar Ligure alla Carnia, hanno attraversato i millenni per giungere intatti fino allo scorcio del XXI secolo.

I montanari del Vajont, spiegano le pagine gualcite del vecchio quaderno dalla copertina nera, non costituiscono eccezione. Anche le acque gelide del torrente omonimo segnano da sempre una storia che è identica dovunque siano ripidi boschi, cime innevate, prati scoscesi. Dove si strappa alla natura e ai suoi cicli infiniti tutto ciò che è possibile, tutto ciò che mira alla sopravvivenza. Dove la vita si aggrappa tenace e instancabile a sé stessa. Dove la morte appare companatico quotidiano alla mensa dell’uomo impegnato sempre, dalla prima all’ultima luce, “… nei boschi a fare legna, e nei prati a falciare l’erba, e guardare a venie l’autunno, e aspettare Natale vicino al fuoco. E anche portare San Bartolomeo di legno per le vie del paese.”

La morte, appunto. Presenza ubiqua e determinante almeno quanto la vita. Si apre infatti con un omicidio la narrazione dello scultore - alpinista - scrittore di Erto. Un delitto misterioso per il quale pagherà un innocente. Ecco il senso di tutta la storia: la tragedia, proprio quella classica, greca per intenderci. Con tanto di capro espiatorio votato al sacrificio in nome di una società dai tratti primitivi la cui sopravvivenza in quanto gruppo omogeneo e organizzato esige l’individuazione di un colpevole e una condanna purchessìa. Serpeggia instancabile la violenza di cui parla René Girard in tutte le sue opere, che sola è in grado di placare le tensioni distruttive del corpo sociale. Per questo il colpevole deve essere innocente. Proprio come la vittima. Non importa che dalla forca penzoli l’assassino. Conta che il cappio stringa una gola. Meglio se innocente. E giustizia è fatta. Il capro diventa sacro. Sacrificio: sacer facio. La violenza è il sacro. Realtà paradossale; come la vita del resto.

L’uccisione del padre di Zino è solo la prima mossa. Le morti non finiscono che all’ultima pagina. Nella storia di Zino Corona se ne contano diciannove, tutte o quasi violente. Tutte o quasi frutto di maledizione o di veneficio. Anche la follia indotta dal tossico è morte perché uccide l’anima dell’uomo immergendolo nella demenza, esiliandolo a vita fuori di sé. Come Raggio che si spegne nella pazzia per mano amica, con pozione la cui onomastica suona significativamente al femminile: belladonna.

Atmosfere cupe disegna la penna di Corona. All’ombra delle crode, al cospetto delle grave del Vajont, si muovono numerose figure inquietanti e pericolose, infide e temibili come fate malvagie. Sull’intera narrazione si libra infatti il fetore pesante del maleficio opera di donne - streghe. Anche se, in questo caso, non ci sono roghi a “purificarle”. Cinque secoli prima a poche decine di chilometri da Erto come altrove “Le donne delle vallate alpine sono state tra le più perseguitate in Europa: fra quest le streghe dello Sciliar processate nel castello di Presule nel 1506 e 1510” (AA. VV: “La lunga notte della magia”, Workshop. Trento 1995). Le righe di Corona trasudano concrezioni dure di quei tempi, di quegli eventi.

Maddalena Mora, la “maestra” in materia di giochi sessuali, è la prima ad apparire sulla scena. Ed è anche la prima a lasciarla per autoimpiccagione. Non del tutto strega ma completamente donna. L’aborto di cui si macchia è rito satanico e imperdonabile e “chi copa deve coparsi”. Maddalena possiede almeno uno degli elementi che hanno caratterizzato le streghe per tre secoli: ha commesso infanticidio. E, come è noto, al banchetto - orgia del sabba, esse “…portano i bambini da sacrificare ovvero i corpi dei bambini che hanno già ucciso, che vengono offerti in sacrificio al Diavolo…” (Jeffrey b. Russel, “Il Diavolo nel Medioevo – Nominalisti, mistici e streghe”; Laterza, 1987).
Dopo Maddalena Mora c’è Melissa, la vecchia Melissa, esosa e sfruttatrice dei falciatori ai quali succhia denaro in cambio di una grotta, l’”antro” nel quale dormire la notte durante la fienagione ai pascoli alti. Fa una brutta fine la rapace Melissa. La sua maledizione postuma produce quattro morti. È certamente una “stria”. C’è, inoltre, ma solo nominata, la “stria del baugo” che fa “…lo strionamento perché non gli avevano dato un tocco di butirro”.

La strega più pericolosa uccide però con lo sguardo. Corona la introduce nella narrazione descrivendone i tratti ma non ne pronuncia mai il nome: “…una di San Martino, una donna non tanto alta però coi fianchi larghi come una cavalla, forte e lavoratrice, giusta da far figli”. Ecco tutto quel che c’è da sapere sulla “moglie di Raggio” e sulle donne in genere. O, almeno, quasi tutto, perché il tratto essenziale, il segno che la marchierà per sempre è il silenzio: “Solo che parlava poco, era sempre misteriosa e stava per conto suo...”. L’epitaffio è bell’e pronto. Il futuro si fa presente in queste brevi righe. Un futuro assolutamente fatale nel quale compare anche l’aborto come per Maddalena Mora. “Lei”, perfetta incarnazione della catastrofe, uccide il figlio di Zino che porta ancora in grembo e, come le sirene di Ulisse, uccide ma, a differenza di quelle, con lo sguardo: “…lei, la nuova sposa, mi guardava”.

Annuncio tragico eppure inevitabile: “Ancora non immaginavo che da quelle guardate (…) sarebbe cominciato tutte le mie disgrazie”. Raggio riesce persino a sopravvivere al morso venefico della “lipera”. Ma non sopravvivrà allo sguardo della moglie - strega che “Non apriva mai bocca…” perché, “… mandava segni coi occhi, parlava con quei occhi che ti strascinavano verso di lei…”. Gli occhi, lo sguardo che attrae, che mette in ceppi e avvince più dell’esibizione di parti anatomiche eroticamente significative. La donna è dunque, insieme, Morgana, Medusa, Medea e Melusina, quadruplice radice del mondo governato dalla Dea Madre che ci costringe da sempre come spiega James Hillman“…a riconoscere il perdurare degli dei non più nell’ossequio di corpi e anime ai rituali, ma come ‘malattie psicologiche…” della carne, dell’anima, della società.

Morgana “nata dal mare, che sempre ci illude e ci inganna; Medusa dai capelli di “lipera”, paralizza con lo sguardo; Medea, la virgo cruenta di Draconzio, la maga di Euripide, uccide i propri figli per vendicare il tradimento e Giasone - Zino si toglierà la vita; Melusina, infine, simbolo dell’inconscio, fata ambigua dalla coda di serpe, immagine femminile che soccorre ma che, come Morgana, spesso inganna. L’opera al nero declina dunque al femminile tra le grave del Vajont. Ecco la “donna selvaggia” di Corona che, figura archetipica del vivente, incarna la mater aeterna. Mater: materia come origine e forma elementare della vita, fenomeno panico irrazionale di cui l’uomo prova terrore. Panico, appunto. Nasce qui ogni caccia alle streghe che la storia ricordi. Le streghe, incomprensibili creature del male, vanno eliminate. Producono sempre orge, incesto, infanticidio, omicidio. Nel romanzo di Corona muoiono spesso per mano propria o altrui. Solo le fate sopravvivono. Ma sono infanti (come Neve) o appartengono alla pianura, come l’ultima donna di Zino. Dunque a un altro mondo dove l’amore è possibile quando non sia troppo tardi. Fra i monti vivono solo fattucchiere e megere. E regna il loro sguardo terrificante.

Corona emerge dalle nebbie pesanti e gelide del Vajont come cantore dell’immaginario popolare che per essere tale non è meno vero del mondo duro e roccioso nel quale lungo i millenni si svolge tutta la vita degli ertani. Una vita che, come altrove nelle valli alpine, si identifica spesso nella ritualità operosa legata ai ritmi arcaici della natura, più frequentemente matrigna che madre ma pur sempre origine ab antiquo della sacralità del vivere e del soffrire. Dove spesso l’assidua dedizione alle lusinghe ottundenti di Bacco costituisce rimedio essenziale contro “…malinconia, ipersensibilità, pazzia, ossessione orrendi gorghi nel mare gelido, antiche case dirute e fatiscenti” (Guy Davenport: “La geografia dell’immaginazione”. Adelphiana. www.adelphiana.it; 2002). Rappresentazione baroccamente perfetta dell’universo descritto da Corona. È sempre la donna, arcaico mitologema del mondo, a portare la colpa del peccato poiché “Nella cultura chiusa, misogina e tremenda del paese, le cose magiche e sublimi, ma anche infide, traditrici e impossibili da dominare, diventano femmina” (Mauro Corona, “Le voci del bosco”; Ed. Biblioteca dell’immagine; collana Chaos).

L’uomo, debole schiavo, si lascia travolgere dalle donne che sono quasi sempre un po’ streghe, un po’ puttane. Comunque facitrici di eventi mortali che sconvolgono Erto, Macondo nostrano dominato dal respiro tagliente delle crode tra le quali si aprono orrendi Maelstrom chiamati foibe. Voragini tenebrosamente mitiche rappresentano un Ade locale che erutta “…un’aria fredda e svelta (…) che pareva avere dentro come voci di lamenti…”. Abissi pronti ad inghiottire delitti e vittime come Raggio e la vecchia dell’antro. Ma non per sempre: Melissa ritornerà in una bara di ghiaccio dalla quale spalanca gli occhi: “Era uno sguardo diretto, fermo, cattivo, duro. Uno sguardo feroce, insostenibile”.

Riemergerà anche lo scettro ligneo di “re Raggio”, con la “lipera” scolpita in basso, a determinare l’esito infausto della storia di Zino. Il bastone, il suo segno: “Dalla foiba del monte Cornetto aveva attraversato le budelle nere della terra, lungo i torrenti sotterranei dell’inferno…”. Per portare a compimento la legge: “chi copa si deve copare”. Lungo tutto il testo scorre una inconfondibile “linea gotica” che sembra conservare un debito ai paesaggi spettrali di Poe e di Lovecraft. Più al secondo che al primo.
Tutto finisce con la morte. Zino, dopo aver cercato invano di fuggire e di “…dimenticare un poco quel cane che mi correva dietro sulla terra e mi mordeva la vita di continuo, giorno e notte”, trova la pace in un cappio.

Ultima modifica il Lunedì, 25 Gennaio 2021 06:33
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