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Pubblicato in Cultura

QUANDO CADRÀ LA PIOGGIA TORNERÒ di Takuji Ichikawa

Domenica, 28 Febbraio 2021 07:49 Scritto da  ELIO SPADA

La pioggia continuava.
Era una pioggia perenne
una pioggia dura e fumante,
una pioggia ch'era un sudore;
Ray Bradbury, “Pioggia senza fine”

 

Una prova d’amore che supera ogni confine, nello spazio e nel tempo.
Due elementi, soprattutto, mi pare debbano essere sottolineati nel romanzo di Ichikawa. Il primo, decisamente inatteso, riguarda il contesto nel quale si muovono i protagonisti: un Giappone “inesistente”, totalmente privo delle caratteristiche tipiche della cultura, degli usi e costumi del Sol levante. Il secondo attiene la natura stessa della narrazione, la sua forma, in senso aristotelico, che coincide sic et simpliciter, con la sostanza del processo narrativo. Partiamo dal secondo oggetto della nostra attenzione. Ci troviamo di fronte, senza dubbio, ad un romanzo di fantascienza. O, meglio, si tratta “anche “, forse soprattutto, di un romanzo di fantascienza. L’elemento decisivo, a questo proposito, risulta essere il “viaggio nel tempo” di Mio. Un viaggio fisico, non psicologico né soltanto ipotizzato o fantastico, che determina interamente forma e sostanza del narrare e del narrato.

Con la storia dolce, intensa, drammatica di Mio, Takumi e Yuji, del loro indistruttibile amore, del loro dolce-amaro destino, il lettore viene introdotto infatti in una dimensione indecifrabile. Le vicende umane di cui si delineano i percorsi sfiorano fino a toccarla e a farne parte integrante, l’impossibile coincidenza di due realtà adiacenti ma reciprocamente “altre”. Per un lungo istante (di tempo? di spazio? d’amore?) due universi (stavo per dire paralleli) convergono spezzando la rigorosa natura euclidea del reale. Il nuovo nasce così, nella realizzazione di un impossibile ritorno, di un sogno talmente realistico da risultare vero. In perfetta aderenza con la concezione asimoviana della S. F. la quale “…sogna, sì, ma sogna il possibile o, piuttosto, il non-impossibile” (Isaac Asimov, “Dodici volte domani” pag. 26; SFBC, 1964.)

Di quest’ultima specie fanno senz’altro parte i cosiddetti viaggi nello spazio-tempo. Forse il ritorno di Mio appartiene all’universo dei sogni, alla loro natura, al loro significato. Nonpertanto risulta concretamente meno “fisico”. E reale come il gioco intenso ed inesauribile di sentimenti che diventano passione per trascorrere spesso in suggestioni malinconiche. Inevitabile che il ritorno di Mio costituisca la conditio sine qua non e, insieme, cifra ed enigma della storia che si dipana in un Giappone (approdiamo qui al secondo elemento costitutivo del romanzo) quasi invisibile, dai contorni nettamente occidentali, addirittura spesso mediterranei. Takumi mangia italianissimi spaghetti al ragù, non sushi.

I suoi riferimenti culturali non attingono ai fondamenti della tradizione nipponica ma alle origini del pensiero occidentale. Cita, Takumi dalla psiche fragile ma capace di esprimere come causa finale un amore letteralmente immortale, Platone e Aristotele. Si esprime, qui, l’assenza totale del mondo rigoroso fino alla rigidità dei samurai; la visione fondamentalista dell’onore e della forma di una società arcaica ormai scomparsa e, comunque, solo oleografica. Il Giappone di Ichikawa si riduce al futon e alle scarpe lasciate davanti alla porta, Nulla emerge, lungo il percorso narrativo, di contiguo alla tradizione spietata della società del seppuku e dei kamikaze senza macchia il cui rigore sacrificale Mishima ha più volte descritto indicando la soluzione radicale dell’umano nell’abolizione dell’uomo, nel respingimento della vita in nome della morte. Mio, invece, respinge la morte in nome della vita. Fin dove le è concesso.

Si realizza, con inatteso ritorno, il senso apotropaico di un profondo misteryum fidei nel quale la fede non riguarda il divino ma il sogno umanissimo d’amore che trascorre impetuoso ad animare una minuscola ma possente trinità.
Takumy lo sa bene (anche se, come dice Yuji, lo scopre “poco a poco”) che sta provando “attrazione per uno spirito.” È un dolcissimo fantasma che si materializza sotto una fitta pioggia: minuscole lacrime lustrali e fecondatrici in grado di dissolvere la morte. Mio, però, non risorge ma rinasce; per questo non ha più memoria e deve imparare quasi tutto daccapo l’alfabeto degli affetti e dei sentimenti. Non compie, Mio, una misteriosa e divina reincarnazione. Semplicemente torna a prendersi cura dei suoi. Ad amare. Il pianeta Archivio può attendere.

Non si assiste all’inizio di una fiaba bensì al principio di una storia, vera (anche se sprovvisto di realtà) come lo è ogni storia umana per la quale il sogno, privo di cronicità, è condizione essenziale di sopravvivenza. Fantascienza pura nella quale non agiscono miracoli ma solo eventi imprevedibili o molto improbabili; sempre teoricamente possibili. Perché, come spiega Sergio Solmi in un eccellente saggio del 1959 “La science fiction non è profezia ma una proiezione appassionata dell’oggi su un avvenire mitico: e per questo aspetto partecipa della letteratura e della poesia”. (“Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza”, XX; Einaudi). Avvenire mitico ma anche passato prossimamente atteso. Mio è il passato che si fa futuro mitologema copernicano dell’amore. Con accenti futuristi presenti dell’ansito della vecchia distilleria abbandonata che lancia messaggi incomprensibili, arcane litanie.

A ben vedere c’è molto più Oriente in quel pezzo di muro superstite di un altro antico opificio che sorregge e incornicia un porta chiusa sul nulla di un passato ormai privo di senso apparente. Come quel numero 5. Come quella cassetta postale in vuota attesa di un messaggio. Non facciamoci ingannare. Quel muro, quella porta, quel numero, quella cassetta abbandonata costituiscono un poderoso simbolo dell’attesa e dell’oggi. Lì, davanti all’inutilità presunta del passato, nasce l’impossibile realtà di un presente partorito dal futuro che ne costituisce insieme causa finale ed efficiente.
Anche se il punto di librazione che indica la perfetta equidistanza (eraclitea coincidenza) fra vita e morte, non può manifestarsi in eterno. Se non ci fosse una lettera a certificare l’evento, si tratterebbe di puro marasma onirico. Ma quelle righe manoscritte ci sono e generano la risposta. Ecco perché la cassetta postale, che annuncia un avvento e un ritorno. Muro e porta rappresentano il diaframma che separa/unisce questo mondo e quell’altro; il pianeta Terra e il pianeta Archivio, l’improbabile e il possibile. In fondo l’enigma della vita è identico al mistero della morte. E dell’amore. Leggete questo romanzo. Poi procuratevi “Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera” del cineasta sudcoreano Kim Ki-Duk, scomparso qualche mese fa a 59 anni. Guardatelo con attenzione e capirete forse perché la pioggia cade su ogni pagina del bel romanza di Ichikawa.

 

Ultima modifica il Domenica, 28 Febbraio 2021 07:53
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