Riprendiamo qui il discorso sui provvedimenti antisemiti assunti dal fascismo, sulla base dei cognomi di origine ebraica, in seguito alle leggi razziali del 1938.
Non è un mistero che durante la prima fase del Ventennio, numerosi interventi del regime si inserirono nell’ambito di quel nazionalismo linguistico prodotto dal fascismo nel quale agisce l’italianizzazione di cognomi di origine o grafia straniera. Un primo passo verso la degradazione del segno di identità individuale trasformatosi, fra il 1939 e il 1942, in ottuso (e in parte inefficace) strumento della caccia all’ebreo. Un problema oggi più incalzante che mai stanti i rigurgiti antiebraici e razzisti presenti in numerosi blog e siti internet negazionisti. Chi ha buona memoria ricorderà forse un articolo apparso su la Repubblica una decina di anni fa nel quale l’autore denunciava la presenza sul web di “Elenchi di ebrei italiani «influenti», dall’economia ai media, ma anche nel mondo dello spettacolo.” Una vera e propria “blacklist dell’odio antisemita. Neonazisti, la lista della vergogna"Ecco i nomi degli ebrei italiani" - la Repubblica
E l’Italia, in questa corsa all’odio razziale, non è certo sola. Episodi simili si registrano in Francia, Germania e altrove.
La ricerca dell’origine razziale o etnica basata sul cognome, traeva origine dalle difficoltà pratiche di tale intervento. Infatti il dispositivo giuridico, all’articolo 5 imponeva all’addetto alla registrazione dei matrimoni l’obbligo di: “accertare, indipendentemente dalle dichiarazioni delle parti, la razza e lo stato di cittadinanza di entrambi i richiedenti.” In caso contrario “L'ufficiale dello stato civile che trasgredisce al disposto del presente articolo è punito con l'ammenda da lire cinquecento a lire cinquemila.” Ovvio che davanti a simili pericolose minacce, gli addetti alla registrazione dei matrimoni non avevano quasi mai altra scelta che basare la loro azione sui patronimici. Di conseguenza l’art. 9 imponeva che “L’appartenenza alla razza ebraica deve essere denunziata ed annotata nei registri dello Stato civile e della popolazione”.
Possedere un cognome in odore di ebraismo era talmente “scomodo” che l’art. 4 della legge 13 luglio 1939, n. 1055, consentiva ai cittadini italiani non appartenenti alla “razza ebraica” ma segnati da cognomi “notoriamente diffusi fra gli appartenenti a detta razza”, di sostituire il proprio cognome. Per agevolare questa operazione gli interessati venivano esonerati dalla tassa di concessione governativa prevista in caso di cambiamento di patronimico. La norma riguardava anche gli ebrei cosiddetti “non discriminati” che ricoprivano un importante ruolo politico, economico o che erano personalità di spicco oppure inseriti con ruoli di primo piano nel regime. Anche se la loro presenza poteva risultare scomoda.
Un censimento effettuato nell’estate del 1938, subito dopo la promulgazione delle leggi razziali, riferì che in Italia erano presenti circa 50mila ebrei, fra professanti l’ebraismo (circa 47mila) e fedeli di altre religioni ma di identità ebraica. Naturalmente e inevitabilmente, molti ebrei erano sfuggiti fra le maglie del censimento. Il regime agì con rapidità una volta in possesso dello strumento giuridico adatto. Come, spiega lo storico Michele Sarfatti, “L’azione governativa fu quindi inizialmente rivolta a eliminare gli ebrei dalla vita nazionale (espulsione dalle cariche pubbliche e dal comparto educativo-culturale) e a separarli dai non ebrei (divieto di matrimoni “razzialmente” misti, ecc.); mentre altre misure persecutorie (revoca o limitazione della possibilità di lavorare e istruirsi) avevano anche la funzione di stimolare i perseguitati ad emigrare.” Agli ebrei italiani veniva anche precluso l’ingresso nelle forze armate.
Il tutto in ossequio ai contenuti del “Manifesto sulla purezza della razza” pubblicato il 14 luglio del ’38 e sottoscritto da dieci “scienziati” razzisti, nel quale si stabiliva fra l’altro che “alla base delle differenze di popolo e di Nazione, stanno delle differenze di razza”, dunque biologiche come recita il titolo del terzo paragrafo del “manifesto.” Il paragrafo 4 stabilisce inoltre che “La popolazione dell’Italia è di origine ariana e la sua civiltà è ariana.” Mentre il paragrafo 8 afferma con granitica perentorietà che “Esiste ormai una pura “razza italiana”. Sorvoliamo sulle altre farneticazioni con le quali si fa anche riferimento a presunti “Caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani…” (Citazioni del “Manifesto” in R. De Felice: “Mussolini il duce – Lo Stato totalitario 1936-1940”. Appendice. Giulio Einaudi editore, Torino 1981).
La caccia al patronimico ebraico poteva produrre anche effetti paradossali e, a volte, quasi comici. Riferisce infatti Giorgio Resta, nel saggio già ricordato apparso sul numero di maggio del 2014 della “Rivista di diritto privato” (Cacucci editore), che nella prima versione il dispositivo prevedeva “l’obbligo per gli ebrei di aggiungere al proprio cognome quello di “Monti” o “Montini”, Bianchi” o “Bianchini”, allo scopo di rendere costoro immediatamente identificabili”. Tale grossolana disposizione venne eliminata “nella versione rivista dallo stesso Mussolini.”
Vedi anche Michele Sarfatti, La persecuzione degli Ebrei in Italia