Avevamo concluso la nostra cronaca delle pestilenze in Valsassina, riportando le notizie sul morbo che seminò terrore e morte a cavallo fra XV e XVI secolo. Lontano prodromo, ancorché molto più ferale, del presente dilagare epidemico dovuto all’ormai ecumenicamente diffusa infezione da coronavirus che qualche grattacapo di non irrilevante entità sta distribuendo qua e là anche fra le Prealpi orobiche. Certo, rispetto al Covid, la peste bubbonica fu più letale in proporzione al numero degli abitanti di allora colpiti dal contagio. A Milano, a titolo di esempio, pare che il morbo abbia ucciso 30mila persone Anche se, nel corso dei secoli, la scarsità di documenti non consente di riportare dati precisi in merito all’incidenza della mortalità sulla popolazione valsassinese.
Ci sembra comunque sufficiente riferire a titolo di esempio le cifre dei decessi nel capoluogo lombardo dove, secondo lo storico Giovanni Simonetta, nel 1451, primo anno dell’epidemia, si contarono 30 mila morti. Erano gli effetti di quell’ epidemia magna, ancora attiva più di 30 anni dopo, le cui devastanti ondate indussero i milanesi, nel 1489, a costruire il Lazzaretto ancora attivo, per gli stessi scopi, all’epoca della “peste di San Carlo” del 1576 e di quella descritta dal Manzoni che colpì duramente anche la Valsassina e l’intero comprensorio lecchese. Proprio dalla peste del 1630 riprendiamo la seconda parte della nostra storia.
L’epidemia si diffuse al seguito delle truppe, soprattutto mercenari, di Ferdinando II entrate in Italia per fermare i francesi di Carlo Gonzaga duca di Nevers le cui legioni avevano occupato Mantova e il Monferrato, ritenendo il Gonzaga di tenere diritti di possesso su quei territori. Ma, come spiega lo storico Andrea Orlandi, in una serie di articoli per la “commemorazione tricentenaria della peste manzoniana” apparsi sul periodico lecchese “All’ombra del Resegone” (gennaio - febbraio 1930), “Fra le soldatesche alemanne che si misero in cammino verso l’Italia serpeggiava la peste, alla quale dava incentivo un’estrema sudicieria: il morbo anzi erasi già propagato alla Svizzera e alla stessa Valtellina.
” Le legioni asburgiche, composte in gran parte da mercenari muniti di picche e spade, varcano dunque il lago di Costanza a Lindau, dove erano acquartierate, e il 29 maggio del 1629 arrivano a Coira, in Svizzera. Qui sostano per oltre tre mesi. Il 20 settembre le soldatesche imperiali invadono la Valtellina e raggiungono Colico mettendone a ferro e fuoco il territorio. Poco dopo i mercenari, meglio noti come lanzichenecchi (il termine tedesco è “landsknecht”, vale a dire “servi della terra”), dilagano in Valsassina occupando paesi, villaggi e pievi tranne, ricorda l’Orlandi, “Premana, Pagnona, Indòvero, Narro e Moggio”.
L’invasione è fulminea ma non altrettanto rapido il transito della “soldatesca alemanna” poiché “Durò il passaggio fino al 3 ottobre di quell’anno1629: il Tadino precisa in 28800 gli uomini di fanteria, 7456 i cavalli: totale 36256”. La peste non tardò a presentarsi.
Uno dei documenti più importanti per quanto riguarda la presenza dei “lanzi” in valle è una relazione prodotta da due missi dominici inviati dal Tribunale della sanità di Milano presieduto da Ludovico Settala, per condurre alcuni sopralluoghi anche lungo il Lario, la Valsassina e le zone limitrofe con l’obiettivo di valutare la situazione sanitaria e predisporre adeguate misure contro la pestilenza che stava già dilagando. Il capo spedizione era il protofisico Alessandro Tadino, citato dall’Orlandi; lo accompagnava il giureconsulto Giovanni Visconti.
In pratica si trattava dei commissari straordinari dell’epoca per l’emergenza sanitaria del Ducato di Milano, allora soggetto alla dominazione spagnola. Va comunque sottolineato che la relazione conclusiva del lavoro svolto dai due inviati sanitari, “Il raguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste Contagiosa, venefica, & malefica…” stilato dal Tadino, costituisce la fonte principale dalla quale Manzoni ricavò dati, fatti ed eventi inseriti poi nei “Promessi sposi” per descrivere il morbo e i suoi effetti nel Ducato di Milano di cui la Valsassina faceva parte. Il manoscritto sarebbe poi stato presentato “All’illust.mo sig.r Francesco Orrigone, vicario di provisione Della Città, & Ducato di Milano”.
I due inviati si assumono il compito di “mandare in luce la vera Origine e successi della crudel peste seguita in questa città di Milano, e suo Ducato…”. L’intento del Tadino è chiarissimo: produrre una completa e particolareggiata relazione tecnica sugli avvenimenti, vale a dire “un racconto minuto, e distinto, dell’origine, e de tutti li casi di tempo in tempo, e luogo seguiti in generale, e in particolare…”. Sorvoliamo sull’interminabile introduzione dal taglio storico, vergata in italiano baroccamente pomposo, come era costume dell’epoca, contenuta nel “Libro primo” che copre un lasso di tempo di 25 anni, dal 1603 al 1627, in cui si descrivono anche le conseguenze della carestia che colpì il Ducato e l’intera Italia settentrionale in quegli anni. Segnlala Tadino, soprattutto, l’ammassamento delle “soldatesche alemanne” mercenarie nei Grigioni, cioè in Svizzera, dove “alcune terre si trovavano infette di peste…”.
Il contagio si diffuse Oltralpe in poche settimane anche perché, spiega il protofisico milanese “…questa soldatesca non stimando la morte, meno la peste, haveva svaligiato alcune di queste terre infette…” mentre era in attesa di discendere in Valtellina. L’Italia aveva già conosciuto la furia dei mercenari tedeschi nel maggio del 1527 quando, insieme alle truppe spagnole di Carlo V, gli alemanni si resero responsabili del sacco di Roma.
L’invasione del 1629 è improvvisa e inarrestabile. I lanzi, valicato lo Spluga percorrono la Val Chiavenna, arrivano a Colico e “l’abbrugiarono in un solo giorno”. Il 21 settembre la soldataglia asburgica devasta Bellano, poi risale il corso del Pioverna e irrompe in Valsassina, risparmiando l’Alta valle ma propagandosi con la rapidità di un incendio nel resto del territorio nel quale, spiega Tadino, “…si veggono vestigie delle antichità delli Toriani indi originar, li quali un tempo predominorno Milano…”. Del passaggio dei mercenari a Bellano abbiamo la testimonianza di Sigismondo Boldoni, letterato dell’epoca, il quale in una missiva al cardinale veronese Ubaldini spiega che “gli abitanti del paese e del Lario, costernati, fuggono lasciando le case spoglie di ogni cosa”. Boldoni, per evitare guai peggiori, è costretto ad ospitare “per interi sei giorni” una compagnia di soldati ma morirà di peste qualche tempo dopo.
Le orde mercenarie nelle cui file allignava da mesi la peste, devastando e distruggendo ogni cosa percorrono un territorio dove, spiega il protofisico milanese, “scorre in una parte il fiume Pioverna , dall’altra il fiume Troggia…” le cui acque “non meno delicate, che delitiose” scaturiscono da “…scoscesi monti, frà quali il Monte Albano e il Monte Grigna…”. Tadino descrive “la strage che fu fatta in questa valle” e le devastazioni che i landsknecht si lasciano alle spalle dopo più di dieci giorni di violenze e saccheggi mentre i valsassinesi si rifugiano in massa sui monti e negli alpeggi più alti: “così apponto restò infelicemente trattata la Valsassina”. Alla fine, viene scritto nel “Ragguaglio”, ai primi di ottobre, “Quando piacque al Cielo hebbe pur fine il passaggio & il transito di questa soldatesca alemanna.”
Le schiere mercenarie si dirigono a Lecco, si spandono in tutta la Brianza puntando verso il Mantovano e lasciandosi alle spalle un pericolo ancor più grave delle stragi e devastazioni: il contagio. Trascorso il devastante tornado delle milizie alemanne, non c’è più tempo da perdere: è necessario portarsi il più rapidamente possibile sul posto per accertare i danni provocati dall’invasione e, soprattutto, appurare se nei territori del Lario si stia davvero diffondendo la peste. Tadino e Visconti partono da Milano “Alli 26 del sudetto mese di ottobre” alcuni giorni dopo la denuncia di numerosi decessi sospetti nei pressi di Lecco. La missione affidatagli consiste nel “visitare tutte le terre, ville, Castelli, & porti di tutto il Lago di Como, di tutta la Valsassina…”.
(Segue)