Anch’io ho fatto il Giro d’Italia. Beh, non proprio. È stato domenica scorsa. Caricate le bici in macchina e scaricate a Lecco. Alle 9 inforcati i nostri destrieri a pedali e partenza verso Onno. Mara è a ruota. Lei non molla mai. L’impressione è che noi si proceda a gran velocità e che il paesaggio scorra adagio. La riva opposta del lago è quasi ferma. L’akuaduulza cantata da Van De Sfroos muove lenta, sulla destra. Azzurro come la maglia di Coppi, il cielo è immobile. L’illusione ottica mi conforta un poco. Ma gruppi di ciclisti ci superano con deprimente rapidità spezzando la breve trance e l’illusione del moto accelerato: mi sento un mollusco dotato di salopette, casco policromo e tutto il resto. Piegato in avanti, impugno la parte bassa del manubrio alla ricerca di un problematico miglioramento del coefficiente di penetrazione. Ma le gambe si alternano nella perfida compressione della mia protuberanza addominale seguendo il ritmo dei pedali.
Talché la respirazione si fa stentata. Combatto anche leggieri (sì, proprio leggieri con la “i”, perché? Carducci scriveva “…gioia leggiera…” Se lo fa lui posso farlo anch’io. O no?) attacchi di claustrofobia nell’attraversamento delle due lunghe gallerie di Malgrate, illuminate a notte. A Onno -chilometri percorsi 10; chilometri percepiti 50- deviazione a sinistra. La salita verso Valbrona ha inizio. Insieme al mio calvario. Pasticcio col cambio nel tentativo di passare a un rapporto più agile e quando ci riesco, mia moglie è già avanti di qualche metro. D’ora in poi, fino alla meta -spero di arrivarci ancora cosciente- sarà così. Già, la meta. Ghisallo, nome favoloso nella terra di mezzo delle due ruote; sancta sanctorum dei pedalatori, professionali o sfigati non fa differenza; più croce che delizia delle domeniche en danseuse della mia tarda giovinezza. E anche vecchiezza. Anche se il versante odierno è quello meno impegnativo. La chiesetta sul colle è dedicata alla Madonna specializzata in pedalatori di ogni genere. Fino a qualche anno fa custodiva cimeli più preziosi, ciclisticamente parlando, delle schegge della croce di Cristo e del sangue di san Gennaro. Oggi le reliquie sono ospitate nella struttura postmoderna del Museo eretto a poca distanza dalla chiesa: bici di Coppi, Bartali e Magni, decine di maglie rosa, maglie varie di campioni del passato remoto e recente, foto e ritratti degli uomini che con sudore, fatica e spesso anche sangue, hanno fatto la storia e anche la leggenda dell’italico ciclismo. Un po’ di sana retorica non può nuocere eccessivamente.
Intanto mia moglie è già scomparsa dietro una curva, un centinaio di metri più avanti. Altri cinque chilometri di crisi coronariche e, ad Asso, compare improvvisamente l’incrocio con la strada che conduce a Magreglio. La tentazione di piegare a sinistra (discesa fino a Erba) è quasi irresistibile. Ma poi chi avverte la mia consorte -ormai persa di vista- che ho preferito il piacere al dovere? Allora svolta a destra faccio di necessità virtù, come la monaca di Monza e riparto di buona lena -mica tanto buona a dire il vero- verso la Cima Coppi. Ancora salita. Quel cuore tenero di Mara mi aspetta all’uscita della galleria: “Come va?”. Mi sembra di avvertire nel punto di domanda un che di esclamativo, una sfumatura, più che preoccupata, divertita. Faccio finta di nulla, esalo un sibilo sfibrato simile a un “sì” e tiro dritto. Nei 5 chilometri successivi la pendenza è più clemente. Decine di pedalatori mi superano chiacchierando. Mara rimane con me, girandosi di tanto in tanto per accertarsi che non sia scomparso. La sagoma austera della chiesa romanica di S. Alessandro, (sec. XII) dal suo cocuzzolo mi osserva silenziosa e meditabonda. Si raggiunge percorrendo i ciottoli di una via crucis.
La mia si presenterà fra poco. Le nuvole intanto navigano lente nel blu della Vallassina -valle di Asso. La processione ciclistica è ininterrotta. Centinaia di faticatori procedono verso la vetta. Un colpo di pedale dopo l’altro arrivo anch’io all’ingresso del comune di Barni. Davanti a me un lungo, ripido rettilineo, mi ammonisce con severità: “Pensaci bene”. Non rispondo per risparmiare fiato. Eccolo il calvario che sono andato a cercare con senile incoscienza. L’erta si fa improvvisamente spietata: una Lecco - Ballabio senza tornanti e senza pietà. Millecinquecentometri di purissima agonia. Mi spiacerebbe davvero morire ancor giovane. Ma dài, settantaquattro non sono così tanti. Il computer di bordo segnale km/h 6.2. Le mie gambe non sono d’accordo e protestano vivamente. Fingo di ignorarle anche se il mio “naso è triste come una salita”, proprio come quello del Bartali di Paolo Conte. La chiesetta del Ghisallo si appalesa improvvisamente e provvidenzialmente.
Ci siamo. Mara mi ha aspettato con santa pazienza. Sesso debole, seh! Una folla di ciclisti e centauri motorizzati occupa l’intera area del colle. È domenica e il tempo non sembra intenzionato a fare brutti scherzi. La picchiata verso Bellagio è entusiasmante. Vado a mille. Mi sento un vero figo. Però non ricordavo che l’ingresso in Civenna fosse micidiale. E anche l’uscita. Una serie interminabile di saliscendi spezzano gambe e schiena. Ma è tardi per alzare bandiera bianca. Si deve tornare a Lecco. Finalmente dopo più di un chilometro di su e giù, la discesa vera. Una fatica bestia. Le mani stringono continuamente le leve dei freni. I vecchi pattini un tempo gommosi, sono diventati come legno e non fanno attrito sui cerchioni. Dopo qualche minuto ho gli avambracci paralizzati per lo sforzo della frenata continua. L’arrivo a Bellagio è la fine di un incubo.
È, anche, l’inizio di un sogno. Vedo già il lago scorrere veloce alla mia sinistra, l’uscita da Oliveto, l’ingresso a Onno e la salitella… Salitella? Cinquanta metri in totale assenza di gambe. Muovo spalle e braccia e testa. Ma le gambe, quelle no. Si rifiutano. Sono assenti. Fingono di guardare altrove. Ma quel piccolo, insignificante, impercettibile dosso mi sembra lo Stelvio. Vabbè, bene o male me la cavo. Altri venticinque minuti quasi facili e alle 11.10, cinquantacinque chilometri dopo la partenza, siamo alla macchina. Velocità media, 21.8 km orari. Vorrei piangere ma sono troppo stanco. Nella strettoia di Laorca dal sedile del passeggero una vocefemminile chiede: “Martedì dove andiamo? Resinelli? Valvarrone?”.
“Io no, io, no, io no”: la voce di Vasco Rossi riprodotta dallo stereo mi propone un suggerimento e copre l’irriverente risposta.